La Doganella D’Abruzzo

La Doganella d’Abruzzo

dalle fonti dell’Archivio di Stato di Teramo

di Luciana D’Annunzio

In “Sussidi eruditi 77”, La Transumanza nel Mezzogiorno. Segnalazioni dagli Archivi, a cura di Saverio Russo, Roma 2008, Edizioni di Storia e Letteratura

Il contributo dell’Archivio di Stato di Teramo alla storia della transumanza in Abruzzo, e in particolare nella provincia teramana, consente di ripercorrere, attraverso una sommaria analisi delle fonti documentarie, la storia delle istituzioni che, nel corso del tempo, hanno disciplinato la pastorizia, attività tra le più antiche e diffuse nel territorio (1). Le indicazioni di massima, oltre ai dati archivistici, contengono, tuttavia, quegli elementi essenziali maggiormente utili ed indicativi per approfondirne la ricerca. Qui in appendice si riportano, inoltre, le voci tratte da L’inventario del Fondo Delfico (2) (complesso documentario conservato presso lo stesso Istituto) relative agli “Stucchi”, argomento di studio trattato con notevole impegno da Melchiorre Delfico (Teramo 1744-1835). Storico, filosofo, economista, Consigliere di Stato nel ramo Finanze, durante il governo napoleonico, lo studioso teramano si adoperò per proporre cambiamenti e miglioramenti all’amministrazione delle Doganelle e degli Stucchi, scrivendo “memoriali” e formulando diverse proposte di legge sino a quella definitiva dell’abolizione.

Per quanto riguarda l’amministrazione doganale (3) legata all’esercizio della pastorizia, le istituzioni abruzzesi e in specie quelle teramane presentano delle peculiarità. Con la creazione sotto Alfonso d’Aragona della dogana di Foggia o Dohana menae peducum Apuliae (1447), venne costituita in Abruzzo una locazione particolare denominata Doganella d’Abruzzo, i cui pascoli chiamati “regi stucchi” furono destinati alle pecore di razza pregiata dei proprietari abruzzesi, a piccole greggi di pastori locali e alle greggi provenienti dalla Marca pontificia che non potevano recarsi nel Tavoliere di Puglia (4). La Doganella inizialmente fu amministrata da un luogotenente subordinato al doganiere di Foggia; quindi, alla fine del secolo XVI, la sua giurisdizione fu separata da quella di detto doganiere e conferita ad un ufficiale, posto alle dipendenze della Camera della Sommaria, il quale sotto Filippo IV da luogotenente prese il nome di Governatore generale della doganella (o doganelle) d’Abruzzo (5). Il Governatore generale ebbe la residenza in Chieti – come risulta ad esempio da documenti del 1664 – ed erano subordinate al suo ufficio le tenenze, come quella di Penne, rette da luogotenenti (6). Durante il regno di Carlo III di Borbone, la Doganella fu ripartita tra il Governatore generale residente in Chieti, cui rimase subordinata la tenenza di Penne, e quello residente in L’Aquila, nominati nell’ambito dei componenti delle rispettive Regie Udienze. Lo stato in cui venne a trovarsi in quel periodo la Regia Udienza di Teramo – ridotta nel numero dei suoi giudici, per avere alcune autorità municipali mostrato benevolenza nei confronti dell’invasore, al tempo della guerra di successione austriaca – non diede la possibilità di nominare anche per questa provincia un Governatore generale (7). Tuttavia dalla documentazione conservata risulta esistente in Teramo un foro doganale competente nelle cause dei locati, cioè dei proprietari di greggi. Negli atti giudiziari prodotti dal 1744 al 1787, questo tribunale viene denominato con intitolazioni diverse, quali tenenza, corte o udienza della doganella o delle doganelle, pur trattandosi del medesimo organo giurisdizionale retto da un luogotenente o deputato. Quest’ultimo, con dispaccio 15 agosto 1759, fu autorizzato, in via eccezionale rispetto agli altri luogotenenti, a procedere anche nelle cause criminali senza dipendere dal Governatore generale di Chieti, in quanto andava a rivestire nel contempo le cariche di giudice di Vicaria e di assessore della Regia Udienza (8). La doganella di Teramo – così può essere identificato il tribunale – si avvicinava nella sostanza ad un vero e proprio governatorato.

Ma solo nel 1787, con il ristabilimento di tutti i giudici della Regia Udienza di Teramo, fu istituito il Governatorato generale della doganella, retto da un magistrato nominato dal sovrano (9) pur restando a Penne la luogotenenza. In periferia operavano, come organi delegati, gli uffici straordinari della doganella con a capo ufficiali doganali.

Altro foro esistente a Teramo, la cui documentazione si presenta però lacunosa e limitata ad un arco di tempo relativo alla seconda metà del secolo XVIII, era l’ufficio della Regia dogana menae peducum Apuliae. Si tratta di un tribunale, delegato da quello di Foggia, competente nelle cause di quei “locati” abruzzesi, obbligati a portare le loro pecore nei pascoli del Tavoliere. Retto di norma da un ufficiale, dopo il 1787, per le cause d’appello, veniva designato a procedere dallo stesso tribunale di Foggia l’assessore o l’avvocato fiscale della Regia Udienza di Teramo (10).

Il luogotenente nell’esercizio delle funzioni era affiancato da scrivani, che avevano il compito di stilare i rapporti ricevuti dal Governatore, da alcuni “algozini”, incaricati di avvertire i rei affinché si presentassero alle cause, e da “officiali di residenza”o “cavallari straordinari”, che avevano varie mansioni, quali la difesa degli interessi dei “fidati” e l’amministrazione della giustizia in cause civili per somme inferiori a trenta carlini, evitando così agli stessi “fidati” l’onere di recarsi, in caso di controversie di non elevato valore, presso la Regia dogana di Chieti.

Per far parte della Regia dogana di Teramo era sufficiente, come per tutte le altre dogane, possedere almeno venti pecore (oppure due animali grossi) e pagare la “fida”. I “fidati” avevano vari privilegi, sia di carattere giuridico – non potevano essere citati, carcerati o giudicati da qualsiasi altra Corte – sia di carattere economico con l’esenzione di varie gabelle, regie o baronali o dell’Università, come quelle, ad esempio, della farina, del vino, della carne (11). Questi privilegi si estesero anche ai familiari ed ai servitori dei “fidati”, come è affermato nel Regio dispaccio del 29 novembre 1757, inviato da Bernardo Tanucci al Presidente del sacro regio Consiglio, in cui si legge:

 

[…] Avendo il Re risoluto per punto generale che li servitori, di figli, fratelli, e di mogli o di altri parenti i quali non vivono separati dal capo di casa, debbono essere conosciuti, nelle cause loro, dal Foro cui è soggetto il capo di casa, che paga le mercedi di Real ordine, lo partecipo S. V. Ill. ma, affinché disponga che il Consiglio sappia questa sovrana deliberazione per suo governo (12).

 

Se all’inizio il Tribunale della doganella si interessò esclusivamente delle controversie tra i “fidati” per cause civili, in seguito estese eccezionalmente la sua competenza, come già detto, alle cause penali nelle quali fosse coinvolto anche un solo “fidato”, venendo così a porsi in contrasto con la Regia Udienza Provinciale che giudicava, per cause civili e penali, quelli non di pertinenza della Regia dogana. Poiché i pastori che appartenevano al Tribunale della doganella erano condannati, in caso di reati, a lievi pene, si verificò che, in vista di cause con la Regia Udienza, i contadini acquistassero il minimo di pecore o due animali grossi, per divenire “fidati”. Alcuni, poi, erano “fittizi”, cioè pagavano la “fida” senza possedere animali (13). Questo causò ingiustizie e disordini tanto che si ritenne necessario, per una retta amministrazione della giustizia e per rimuovere qualunque inconveniente, formare un foglio di istruzioni per gli Ufficiali della Regia Dogana, confermando il privilegio del foro ai soli “possessori ” di pecore. Nelle cause su gabelle, tasse ed altre questioni fiscali, tutti i sudditi della Dogana, i “locati” ordinari o gli affittuari di terre salde (ossia quelle terre non lavorate ogni anno e quindi le meno fertili), non godevano delle esenzioni del foro e dovevano essere sottoposti alla giurisdizione ordinaria.

La Doganella d’Abruzzo era composta dalle Poste d’Atri e dai Regi Stucchi. Le Poste d’Atri comprendevano una serie di locazioni e stucchi, raggruppati per nome delle contrade e dei loro proprietari ed ubicati nel territorio di Atri, mentre i Regi Stucchi erano situati lungo la costa adriatica, nei luoghi più fertili e caldi della provincia di Teramo (14). L’origine storica degli Stucchi è molto incerta. Melchiorre Delfico così scrive:

[…] tutto quello che si sa di più antico intorno ad essi è che diverse comunità ed alcuni baroni avevano il diritto di pascolo pubblico promiscuamente coi Cittadini, sui territori aperti de’ particolari e che poi lo cedettero alla Regia Corte per l’annuo canone o prestazione di circa ducati tremila ciascuna per quella tangente che gli apparteneva (15).

Per quanto riguarda le Università, esse acquisirono tale diritto sui fondi dei proprietari per meglio utilizzare e rendere di maggiore estensione quei pascoli che altrimenti, a causa del frazionamento della proprietà, non sarebbe stato vantaggioso sfruttare a pastura. Secondo il Delfico, le Università ottennero il diritto di pascolo sulle private proprietà (cedendolo poi al fisco) con il consenso degli stessi proprietari in cambio della possibilità di poter utilizzare le acque dei fiumi, l’erba dei prati, “le legne morte” e di poter godere del diritto di “uccellagione”. E’ chiaro che, poiché le terre soggette a stucco erano coltivabili, il diritto di pascolo non poteva essere stabilito che negli intervalli di tempo necessari al loro riposo e nei luoghi dove gli animali potevano pascolare senza causare danni. Nella relazione sugli stucchi inviata al Delfico dalla Società Patriottica di Teramo è scritto:

[…] lo stucco è il diritto di pascolare le erbe invernali sui campi secati e incolti, ne’ luoghi  a queste servitù soggette, la libera proprietà dei quali appartiene ai particolari possessori. Questo diritto incomincia il dì 29 settembre e finisce del tutto il dì 8 maggio, quando le greggi de’ locati sono obbligati di uscire dagli stucchi (16).

Il fisco, infatti, riscuoteva la “fida” dopo l’8 maggio, perché a quella data i pastori avevano già venduto alla fiera di Foggia lana, formaggio e agnelli ed erano, quindi, in condizione di poter pagare; esso, inoltre, esercitava il diritto di “non far rompere prima del 25 marzo”, cioè di non far lavorare le terre soggette a stucco: questa disposizione aveva valore soltanto per gli stucchi aperti e non per quelli chiusi. Così esemplifica Melchiorre Delfico:

[…] sono chiusi quelli che da noti rispettivi limiti vengono circoscritti, nei quali i soli fidati possono pascere; aperti quelli che non hanno una precisa e determinata circoscrizione, nei quali si pasce a dente con i cittadini. Ne’ stucchi aperti possono dunque, e debbono di necessità, pascere promiscuamente i Cittadini con i Locati, tanto per le pecore della Doganella… e per tutti gli altri animali che non sono alla dogana soggetti (17).

egli stucchi potevano pascolare soltanto le greggi composte da almeno cento pecore. Con il contratto d’affitto il fisco ebbe il diritto di pascolo e impose ai proprietari di terre di non piantare alberi, ledendo così il diritto di proprietà. Questa pretesa era, infatti, come afferma il Delfico “lesiva alla giustizia e alla ragione”, in quanto non esisteva alcun contratto scritto che obbligasse i proprietari a soggiacere alle richieste; per diritto di pascolo doveva intendersi soltanto l’uso delle erbe durante il tempo necessario al riposo delle terre. Sempre riguardo al divieto di piantagioni, vi furono numerose richieste affinché esso fosse abolito o almeno escludesse l’ulivo che, oltre ad essere prezioso per il frutto, avrebbe ristorato le greggi “con le fronde” (18).

Il fisco non impedì solo le piantagioni, ma anche la costruzione di case e la coltura della terra. Quest’ultimo divieto, oltre a togliere un mezzo di sostentamento alle popolazioni, impediva la semina e la raccolta del foraggio, causando così, in caso di inverni particolarmente rigidi, la morte degli armenti. Tali restrizioni provocarono, inoltre, lo spopolamento di zone che, per la loro bellezza e fertilità, avrebbero potuto essere tra le più felici e ricche. Tutto ciò causò il malcontento delle popolazioni, che arrivarono a chiedere l’abolizione degli stucchi. Anche il Delfico, dopo varie proposte di riforme e modifiche ne chiese l’abolizione con una memoria in cui espose tutti gli aspetti negativi di quell’istituzione, che validamente riconosciuti dal governo napoleonico presso il quale lo stesso Delfico era Consigliere di Stato, ne determinarono l’abolizione.